Si configura il reato di accesso abusivo a sistema informatico per chiunque acceda all’account altrui e vi rimanga senza aver ricevuto espressamente il consenso del titolare. La legge considera reato anche il comportamento di chi, pur ricevendo le credenziali come username e password dal titolare per uno scopo legittimo, si trattenga all’interno dell’account per scopi diversi da quelli assegnati. È inoltre considerato reato il comportamento di chi approfittando della dimenticanza altrui di effettuare l’uscita dal sistema, acceda al suo profilo. Il fatto che questa attività di entrare di nascosto nell’account di un’altra persona sia compiuto all’interno della famiglia non è una scusante per la legge.
La Suprema Corte, con sentenza 2905, ha recentemente condannato un marito che era entrato nel profilo Facebook della moglie e che aveva fotografato una chat intrattenuta con un altro uomo per poi cambiare la password, così da impedire alla moglie di accedere al social network. Contro la condanna emessa dalla Corte d’Appello di Palermo nel settembre 2017, il marito imputato, divenuto ormai ex coniuge della parte offesa, ha protestato in Cassazione sostenendo che chiunque potesse accedere al profilo della donna, presidiato tra l’altro da credenziali banali e facilmente a lei conducibili e comunque comunicate dalla stessa prima della rottura della loro relazione.
Ma per la Cassazione “la circostanza che lui fosse a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico, quand’anche fosse stata lei a renderle note e a fornire così in passato una implicita autorizzazione all’accesso, non escluderebbe comunque il carattere abusivo degli accessi”. “Mediante questi ultimi - proseguono i giudici - infatti si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ‘ius excludendi alios’, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi”.
I supremi giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso della difesa dell’imputato e lo hanno anche condannato a pagare duemila euro alla Cassa delle ammende e quasi tremila euro per la difesa della ex moglie costituitasi parte civile.
Torna indietro